XXI.

Il Vico e la nuova erudizione e storiografia

1. La vita del Vico

Tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento, di cui vedremo poi meglio i caratteri fondamentali di distacco dalla civiltà barocca e di lento inizio della nostra moderna civiltà (che poi troverà ancor piú decisivi motivi di novità e di appoggio al crescere di profonde esigenze di libertà, di socialità, di critico atteggiamento antidogmatico nella pienezza dell’illuminismo e nelle premesse del romanticismo), spicca la formidabile personalità di Gian Battista Vico, non cosí solitaria e inspiegabile nel contesto del suo tempo come è spesso apparsa a molti studiosi moderni, ma certo tanto superiore per genialità e ricchezza di idee, di intuizioni, di fermenti anticipatori, rispetto alla sua epoca e agli altri suoi stessi maggiori rappresentanti.

Il Vico, nato a Napoli il 23 giugno 1668 da Antonio, poverissimo libraio, e da Candida Masullo, anch’essa popolana e povera, ebbe un’infanzia e un’adolescenza difficili sia per la sua gracile salute (a sette anni una caduta gli aveva offeso la testa e procurato una lunga e gravissima malattia), sia per la sua povertà, sia per la sua natura indocile e per il suo ingegno esigentissimo che lo portarono a interrompere piú volte gli studi regolari e a crearsi (anche quando fu iscritto ai corsi universitari di legge) una propria cultura di genialissimo autodidatta, accresciuta nei nove anni passati nella solitudine del castello di Vatolla, dove fu precettore dei figli del proprietario del castello ed ebbe a sua disposizione una ricca biblioteca. Ritornato a Napoli nel 1695, minato dalla tisi, nella povera casa del padre, seguitò con eroica tenacia i suoi studi personali (dalla letteratura antica e moderna al diritto, alla filosofia, alla storia, alla scienza) entrando in fecondo contatto con i circoli culturali e letterari napoletani aperti alle nuove istanze antibarocche e alle nuove correnti filosofiche e scientifiche europee.

Nel 1699, mentre si sposava con Teresa Caterina Destito, da cui avrà ben otto figli, ottenne la cattedra di eloquenza nell’Università di Napoli, ma fu costretto dall’esiguo stipendio e dall’accrescersi dei pesi familiari a impartire lezioni private e ad intercalare alle grandi opere personali, che veniva componendo in mezzo a tante difficoltà e a nuove malattie, scritti commissionati da principi e potenti da cui sperava protezione e aiuto per passare alla meglio retribuita cattedra di diritto romano (che invece fu vinta da un altro e mediocre concorrente), finché nel 1732 la protezione del cappellano maggiore dell’Università gli procurò il raddoppio dello stipendio e la carica di storiografo regio con un ulteriore stipendio.

Ma anche i suoi ultimi anni – malgrado questi miglioramenti economici e queste poche soddisfazioni, cosí sproporzionate al senso stesso che il Vico aveva della propria grandezza – furono amari e dolorosi, aggravati da un crescente decadimento fisico e da liti familiari con la vedova del suo primo figlio, che resero il suo carattere piú chiuso, acre e ombroso, e tormentarono l’estrema sua fatica di revisione del suo capolavoro, la Scienza Nuova, che tuttavia, con la ricchezza delle sue scoperte di nuove idee e di un nuovo metodo filosofico-storico, rasserenò il suo animo e sostenne quella sua ferma e serena gratitudine alla provvidenza per avergli permesso di ritrovare la nuova scienza della storia umana, che tante volte egli espresse prima della sua morte, avvenuta nella notte fra il 22 e il 23 gennaio del 1744, sia in alcune sue tarde lettere, sia nell’epilogo solenne della sua Autobiografia.

2. Le prime opere

Proprio con la sua imponente e severa Autobiografia (composta nel 1725 a cinquantasette anni) il Vico ci aiuta a meglio comprendere, in pagine ricchissime di umanità, il senso profondo della sua vita, cosí povera di avvenimenti, cosí umiliata e rattristata dalle avversità e cosí intimamente tesa e riscattata dal fervore di un’altissima, eroica vita intellettuale, di cui l’autobiografo sottolineò l’autonomia e l’organica coerenza interna di sviluppo fino alle posizioni supreme della Scienza Nuova, anche se a volte finí per attenuare eccessivamente i suoi importanti contatti con il fecondo mondo culturale napoletano, rinnovato da aspre e profonde discussioni filosofiche e scientifiche con i rappresentanti della cultura tradizionale e settecentesca e con i poteri ecclesiastici.

E certo, anche se non si può parlare di una vera crisi giovanile del Vico, par chiaro che negli anni giovanili il grande pensatore fu attratto dallo studio della medicina e della fisica e da quelle teorie filosofiche meccaniche, epicuree o cartesiane che negli anni della sua gioventú erano sostenute dai rinnovatori della cultura napoletana e che piú tardi egli combatterà non senza aver dato prova (appunto nella sua gioventú) di un disperato pessimismo di tipo lucreziano in una dolente e cupa canzone, Affetti di un disperato, notevolissima per vigore espressivo e documento anche di una forma letteraria, pregnante e assai diversa dalla piú affabile e aggraziata eleganza che trionferà con l’Arcadia, ma pur influenzata dalle nuove esigenze antibarocche vive nell’ambiente letterario e culturale napoletano.

Ma se queste precisazioni sulla sua formazione giovanile riconducono alla constatazione di una genesi piú complessa e meno solitaria e rettilinea del suo pensiero rispetto alla interpretazione datane dal Vico nell’Autobiografia, ciò non toglie che nelle prime opere vichiane della maturità si affacci già un pensiero eccezionalmente originale. Il quale vien superando le istanze razionalistiche-cartesiane cosí diffuse nel tempo (e cosí importanti nelle stesse ragioni piú generali della cultura e della letteratura dell’epoca arcadico-razionalistica) e, nella ripresa dell’eredità classica e rinascimentale italiana e della grande lezione di Bacone, tende alla discussione sulla possibile fondazione di una scienza universale e di un nuovo metodo negli studi, con una crescente carica di originalità personale, a mano a mano che si passa dalle Orazioni inaugurali (tenute all’Università fra il 1699 e il 1706) al De nostri temporis studiorum ratione (o metodo degli studi del nostro tempo), che afferma contro il rigido metodo deduttivo-razionalistico di Cartesio l’impossibilità di un unico metodo, valido cosí per le scienze della natura come per la scienza e la conoscenza dell’uomo, del suo animo, della sua storia civile, dei suoi costumi, delle sue arti, fra cui preminente l’eloquenza, e cosí vien precisando da una parte il crescente disinteresse del Vico per le scienze della natura, imperscrutabili perché solo conoscibili da parte di chi ha creato la natura e le sue leggi (e cioè Dio), e dall’altra la sua crescente e prepotente tensione a indagare il mondo del diritto e della storia umana, fatta dagli uomini e perciò da loro conoscibile e interpretabile nelle sue leggi e nei suoi sviluppi. Ché – come viene chiarito nello scritto del 1710, De antiquissima Italorum sapientia, in polemica con la certezza cartesiana del «penso, dunque sono» – il criterio della verità, per Vico, risiede nella conversione del «vero» col «fatto»; sicché si può avere conoscenza solo di ciò che si fa, e gli uomini possiedono quindi solo la possibilità di una scienza umana, di una conoscenza di ciò che essi hanno fatto e possono fare, come il Vico comprovava anche con la reciprocità o equivalenza, in latino, delle parole verum e factum, impostando cosí (con un altro tema fondamentale per i suoi successivi sviluppi) la convinzione che lo studio e l’esame del linguaggio sono un mezzo essenziale per comprendere il senso della storia e dei suoi svolgimenti.

E se in quello scritto il Vico propendeva per una certa maggiore certezza della scienza umana nel campo della matematica e della geometria create dagli uomini e insisteva su di una antica, remota sapienza del genere umano, e specie su quella degli Italici passata poi inconsapevolmente nel linguaggio dei romani e successivamente corrotta e imbarbarita (tesi poi rovesciata nella Scienza Nuova), i temi fecondi su cui egli si affannerà negli anni successivi sono quelli che, impostati nel De antiquissima e attraverso l’opera Del diritto universale, troveranno la loro definitiva e geniale applicazione nel capolavoro della Scienza Nuova, o Cinque libri di G.B. Vico de’ principii d’una scienza nuova dintorno alla comune natura delle nazioni, titolo di un rifacimento della prima stesura, pubblicato nel ’30 e comunemente noto come Scienza nuova seconda; cosí come viene chiamata Scienza nuova terza una nuova stesura iniziata nel ’34 e pubblicata nel ’44, subito dopo la morte dell’autore.

3. La «Scienza Nuova», come scienza della storia umana

In questa opera monumentale, frutto di una meditazione possente e di una fantasia energica e a suo modo poetica, il pensiero del Vico giunge a formulazioni storiografiche ed estetiche di portata europea piú che solamente italiana, promotrici di essenziali sviluppi fino ai nostri giorni e di interpretazioni diverse e spesso contrastanti, tanta è la densità pregnante di quelle formulazioni, l’innegabile loro complicatezza non priva di ambiguità e contraddizioni, la mescolanza di lucide formule e di balenanti intuizioni, di speculazione precisa e di riferimenti culturali a volte confusi, di entusiasmo immaginoso, a volte piú arbitrario e prevaricante sulla limpidezza delle idee in esso implicite, di saldo possesso della cultura e dell’erudizione sino ai primi anni del Settecento e di sempre minore conoscenza di opere e metodi già in atto durante la stesura della Scienza Nuova. Sicché essa può apparire, volta a volta, tanto piú avanzata e feconda rispetto al suo tempo, ma anche per certi aspetti arretrata rispetto allo sviluppo di correnti filosofiche e di metodi storiografico-eruditi che, impostati nel primo Settecento, si svolgeranno in tutta la loro maturità nel piú avanzato Settecento illuministico e preromantico.

Ma, indicata la situazione complessa di un’opera tuttora soggetta a indagini e interpretazioni incessanti, non si dovrà certo in alcun modo per ciò ridurre la sua eccezionale grandezza e suggestione originale, la sua straordinaria importanza nel pensiero storico ed estetico moderno, cui essa offrí alcuni temi e motivi di grandissima fecondità.

Nella Scienza Nuova, infatti, matura pienamente quel grande motivo che il Vico era venuto sviluppando, come abbiamo visto, nelle sue opere precedenti e che ora campeggia vigorosissimo: il motivo della storia come «nuova scienza», come vera scienza che l’uomo può veramente possedere in quanto egli non è spettatore e osservatore esterno e passivo (come è di fronte alla natura, opera di Dio), ma insieme protagonista e creatore di quella e perciò anche capace di comprenderne le leggi insite nella stessa mente umana. Sicché la storia diviene una scienza in quanto è ricavata dall’unica sicura esperienza dell’uomo e dalla «forza del suo intendere», ed essa è «insieme storia e filosofia dell’umanità», basata sulla verità delle sue leggi generali e universali e confermata dalla certezza dei dati particolari – lingue, leggi, costumi, guerre e paci, commerci – che la filosofia interpreta e riconduce entro le linee fondamentali e costanti delle leggi della storia e del suo sviluppo.

Per Vico la storia non è dunque una semplice registrazione e raccolta di dati raccolti dall’erudizione e lasciati privi di vera interpretazione filosofica, ma è la comprensione totale dello sviluppo storico in cui si è venuta realizzando la vita civile del genere umano. Sviluppo organico e coerente, attuato attraverso una serie di stadii e fasi, secondo una sua logica eterna che passa da stadii primitivi di «senso», istinto, violenza, a successivi stadii di fantasia e di sapienza tradotta in miti poetici, fino al completo dispiegarsi della ragione piena e sicura, in un lungo e difficile cammino entro il quale lo storico-filosofo ritrova non la legge del caso e del fato, ma quella della provvidenza che opera nell’attività umana e ne indirizza i fini e propositi particolari a un «fine universale». E questa grandiosa e drammatica visione della storia umana è resa piú complessa e tragica dal profondo senso vichiano dei limiti stessi della piena e «dispiegata» ragione (diversificandosi cosí dall’idea di un progresso indefinito e trionfale che sarà tipico dell’illuminismo), ché essa, giunta alla sua estrema raffinatezza civile, viene come corrompendosi e perdendo il vigore delle generose età del senso e della fantasia, sicché la provvidenza riporta gli uomini alla iniziale condizione di barbarie e, attraverso questa, l’umanità riinizia il suo faticoso cammino.

È questa la teoria dei «corsi» e «ricorsi» della storia umana, incessante e ricca di una continua produzione di azioni e opere, e senza la quale, per Vico, l’umanità si isterilirebbe e perderebbe il suo carattere operoso e drammaticamente fecondo quale si riconosce nella grandiosa rappresentazione vichiana di ogni ciclo storico, corrispondente al ritmo della stessa mente umana.

Come questa ha tre fasi (quella del senso, della fantasia, della ragione, secondo la incisiva formula vichiana: «gli uomini dapprima sentono senz’avvertire, di poi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura»), cosí ogni ciclo storico si muove, con ritmo coerente e faticoso, attraverso le tre età fondamentali (quella «degli dei», quella «degli eroi», quella «degli uomini»).

Prima si affaccia quella età feroce e barbara di uomini bestiali, violenti, impudichi, che pur hanno come sepolta nella pesantezza del senso e dell’istinto una certa scintilla umana e religiosa. E da questa, attraverso il terrore di fenomeni naturali, tuoni e fulmini, gli uomini sono lentamente indotti ad avvertire la presenza di forze superiori e celesti che essi mitizzano nella figura di Giove nella cui adorazione abbandonano la vita selvaggia e ferina, istituiscono i matrimoni, la famiglia, il culto sepolcrale dei morti, costituiscono le prime monarchie.

Cosí, nell’età seconda, nascono le città e gli eroi con le loro aspre contese e con le loro gesta, cantate dai poeti in poemi che esprimono l’immaginazione collettiva dei primi popoli e una sapienza poetica in cui metafisica, fisica, logica, astronomia, geografia trovano una conformazione fantastica e mitica, e le qualità umane vengono rappresentate in quei «caratteri poetici» o «universali fantastici» (cosí in Achille i greci rappresentarono «tutti i fatti dei forti combattivi» e in Ulisse «tutti i consigli dei saggi») e che i moderni possono intendere solo se storicamente si riimmettono nelle condizioni di quei secoli lontani senza chiedere ad essi le qualità razionali, la verisimiglianza o la raffinatezza che sono proprie solo della terza età e cercano, con l’aiuto della filologia e dell’esame del linguaggio, di riconoscere nei miti antichi le istituzioni, i sentimenti, i mutamenti politici e sociali di quella antica vita collettiva, di quelle antiche nazioni.

Solo nella terza età la ragione predomina, raffina e addolcisce i costumi, le leggi, la vita civile, dà origine alla filosofia e all’eloquenza, come avvenne già nel ciclo storico culminante nella storia delle repubbliche democratiche di Atene e di Roma. Ma ecco che la ragione in quell’età si corruppe nel suo eccessivo raffinamento, e con le invasioni barbariche e il Medioevo l’umanità ritornò come al suo primo stadio, ad una rinnovata barbarie, ad una ripresa necessaria di rinvigorimento attraverso il senso e la fantasia.

4. L’estetica vichiana e il valore artistico della «Scienza Nuova»

Se la Scienza Nuova imposta cosí una grandiosa interpretazione della storia umana, appoggiata – nella religiosità cristiana del Vico – alla provvidenza, ma sviluppata in modi vigorosamente storicistici, come fatta dagli uomini e da loro perciò conoscibile, essa insieme imposta una parimenti alta e geniale concezione estetica che ha fortemente influito – pur tra equivoci, forzature e netti dissensi – sullo svolgimento successivo dell’estetica romantica e moderna, delle idee intorno alla natura della poesia e del linguaggio.

Anzitutto per il Vico il linguaggio non è nato per una convenzione e come prodotto dell’intelletto, ma come forma naturale e spontanea della fantasia primitiva e «corpulenta». E perciò la poesia precedette la prosa, forma espressiva piú razionale, tipica di età piú avanzate, ed essa rimane sempre caratterizzata dal vigore della fantasia e del senso, dal trasporto dell’immaginazione e del sentimento, e respinge l’intrusione della ragione che smorza la fantasia e le passioni ed elabora pensieri astratti e il piú possibile depurati dal peso del senso e da quella impetuosa energia delle passioni che turberebbe il suo procedimento intellettuale e mirante alla pura verità.

Perciò i piú grandi poeti dell’umanità sono, per Vico, Omero e Dante, la cui grandezza trovò, invece, tanti ostacoli sia nel Seicento che in molte correnti razionalistiche del Settecento, come poeti rozzi e privi di qualità di eleganza e di ragionevole verisimiglianza, e che viceversa il Vico esaltava proprio per la loro fortissima fantasia, per il vigore delle passioni da loro espresse in un linguaggio robusto, energico, «corpulento», non limitato da remore di razionalità e di eccessiva raffinatezza, espressione e monumento della storia di epoche ancora barbare e fantastiche: per Omero l’epoca mitica-eroica della Grecia di cui l’epopea omerica fu espressione piú collettiva che individuale (dato che il Vico distinse fra Iliade e Odissea, opere di tempi e ambienti diversi); per Dante, «toscano Omero», la «rinnovata barbarie» medievale italiana particolarmente espressa, con il suo violento vigore, nell’Inferno, piú esente dal peso della cultura latina e della filosofia scolastica.

Proprio questo particolare accenno a un limite di Dante (che «se non avesse saputo affatto né della scolastica né di latino sarebbe riuscito piú gran poeta») può mostrare – malgrado possibili ripensamenti in proposito da parte del Vico – come la formidabile tensione dell’estetica vichiana alla forza fantastica, intollerante di ogni peso e intrusione intellettuale e filosofica, avesse in sé degli effettivi rischi di unilateralità e di eccesso (ché proprio in Dante dottrina e poesia appaiono inseparabili). Ma evidentemente questo stesso eccesso è il segno della forza prepotente del pensiero estetico vichiano nella sua novità e originalità, nella sua passione per una poesia tutta fantastica e geniale, diversa sia dalle forme dell’artificio barocco sia da quelle piú eleganti, prudenti, controllate dal buon gusto, dal buon senso, dalla ragionevolezza che vedremo piú proprie della letteratura arcadica, cosí significative nel distacco dal barocco e nella formazione di una nuova letteratura legata ad una cultura di fondo razionalistico e attenta ad un equilibrio fra «natura» e «ragione», ma certo lontane dall’impeto profondo della grande poesia.

E nello stesso stile del Vico, nella sua prosa vigorosa, immaginosa e densa di pensiero originale, molto spesso traluce la forza stessa della poesia in un linguaggio ricco di immagini possenti e balenanti, arditamente poetiche. Sicché il Vico è anche grande scrittore di inconfondibile vigore fantastico, e la sua Scienza Nuova, pur nella massa delle argomentazioni e dei documenti portati in appoggio a quelle, ha come un superbo respiro di epopea.

5. La nuova erudizione e la nuova storiografia: il Muratori

Se il Vico supera di tanto, per originalità speculativa e fantastica, il livello della storiografia del suo tempo, bisogna però anche dire che questa – piú direttamente legata alle generali istanze del razionalismo e della rinnovata scienza sperimentale che vengono prendendo nuova forza tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento grazie anche alla nuova apertura italiana alla cultura europea dopo il maggiore isolamento del Seicento – viene costruendosi con una piú minuta e attenta ricerca di dati sicuri e criticamente accertati e con nuovi metodi filologici ed eruditi che rimarranno fondamentali nella generale costruzione di una cultura lucida e precisa, tanto diversa dalle forme piú farraginose e arbitrarie dell’erudizione secentesca e che, d’altra parte, non manca certo, nelle sue opere piú rilevanti, di nuove ragioni morali e civili, di un nuovo generale spirito di ricerca della verità necessaria a quella «pubblica utilità», a quel bene pubblico, che sono centrali nella stessa tensione della nuova epoca ad una civiltà ordinata da sicure e sagge leggi, sottratta all’arbitrio e al sopruso dei potenti signori feudali o al prepotere ecclesiastico a danno dei popoli e degli stati, essi ancora assolutistici, ma insieme paternalistici e volti a migliorare le condizioni dei propri sudditi.

E questo generale movimento di rinnovamento, si ricordi, trova un appoggio storico nella stessa nuova situazione politica italiana, che veniva ormai liberandosi del pesante predominio spagnolo e lentamente sistemandosi in stati piú aperti alle nuove prospettive europee di un assolutismo paternalistico, piú geloso delle proprie prerogative, piú impegnato in riforme rinnovatrici, che – come vedremo – andranno piú chiaramente imponendosi quando, verso la metà del secolo, nuove dinastie di origine straniera (i Lorena in Toscana, il governo austriaco in Lombardia, i Borbone a Parma e nel Regno di Napoli) porteranno in Italia le piú decise spinte dell’«assolutismo illuminato» e del riformismo illuministico.

Nel vasto panorama di nuovi studi, di nuove ricerche erudite di storia, di ricerche economiche e di vere e proprie opere storiografiche (legate al progresso del razionalismo fino alla sua preparazione del piú vigoroso e liberatore movimento illuministico), spiccano alcune maggiori personalità, non isolabili però dal fervido contesto di tanti altri eruditi, ricercatori, studiosi di storia locale e nazionale, di tanti scrittori di saggi economici, giuridici, politici, attivi in vari centri italiani e spesso collegati fra loro da assidui rapporti e corrispondenze epistolari che ben corrispondono al loro bisogno di una collaborazione degli uomini di cultura ad un’impresa comune di rinnovamento, alla forte ripresa della vita culturale delle singole città italiane e ad una prima volontà di collegamento e organizzazione culturale nazionale (cui su piano piú specifico e letterario risponderà, come vedremo, l’Arcadia), agevolata dai primi «giornali letterari» (e in realtà piuttosto scientifici ed eruditi) che mirano alla diffusione dei nuovi studi e delle nuove ricerche europee e italiane in tutta la penisola.

Fra i maggiori rappresentanti della nuova erudizione, della nuova storiografia, della nuova cultura civile, sarà da ricordare il veronese Scipione Maffei (1675-1755), filologo ed erudito validissimo, soprattutto nell’opera Verona illustrata (che ricostruiva la storia veronese illustrandone i monumenti artistici, le opere letterarie, con un immane recupero di dati e di vicende e un’energica confutazione di errori e di leggende tradizionali), cultore di teologia e di storia sacra, acuto indagatore delle cause della decadenza della repubblica veneta in quel Consiglio politico che auspicava una riforma di quel governo alla luce di nuovi ideali di maggiore libertà e di maggiore partecipazione di tutte le classi alla cosa pubblica, nonché letterato e scrittore impegnato nella riforma arcadica. Ma in una posizione piú alta saranno soprattutto da ricordare il Muratori e il Giannone.

Ludovico Antonio Muratori (nato da una modesta famiglia a Vignola, vicino a Modena, nel 1672 e morto nel 1750) è certo la personalità che – sulla base di un tenace e pacato fervore di prudente rinnovamento, morale, religioso, civile, e di una mente lucidissima, impegnata per tutta la vita in un’attività intellettuale instancabile – meglio seppe tradurre le nuove istanze di erudizione e di storiografia in opere monumentali, fondamentali per gli immensi materiali raccolti e per il metodo erudito in quelle originalmente instaurato e fondato.

La sua vita fu povera di avvenimenti e, dopo un periodo trascorso a Milano come bibliotecario dell’Ambrosiana, si svolse dal 1700 a Modena, dove il Muratori fu bibliotecario e archivista dei duchi d’Este e associò alla sua immane attività di studioso qualche impegno piú ufficiale (soprattutto quando difese contro le pretese dello Stato pontificio i diritti estensi sulle paludi di Comacchio con scritti e con consigli al duca Rinaldo) e un magistero religioso (quale attivo e affettuoso prevosto della parrocchia della Pomposa) ben corrispondente alla sua profonda fede cattolica, aperta però ad una forma di religione avversa ad ogni fanatismo superstizioso e rigidamente dogmatico, ispirata soprattutto dall’amore caritatevole del prossimo e dal bene pubblico, da un razionalistico amore della verità e della saggezza morale che trovarono espressione in scritti assai significativi: come il Della regolata devozione de’ cristiani o la Filosofia morale, a cui corrisponde, su piano piú politico-civile, il trattato Della pubblica felicità oggetto de’ buoni principi, che contrappone alle secentesche teorie della «ragion di stato» l’ideale di regimi monarchici volti a difendere e a promuovere il bene dei sudditi con adeguate riforme e con buone leggi, specie a favore degli strati piú umili e sfruttati della popolazione.

Tali prospettive e convinzioni morali, religiose e civili animano, con il loro nuovo accento di cristianesimo umanitario e razionalistico, la preminente attività del Muratori erudito e storiografo, che, educato alla nuova scuola dell’erudizione europea (quale veniva già esercitata dai padri Maurini e Bollandisti), venne passando da piú minute e limitate ricerche archivistiche ad opere grandiose per il materiale di documenti ritrovati, per la scelta rigorosa dei documenti, non turbata da alcun pregiudizio e accettazione passiva di credenze tradizionali, e per la loro organizzazione, sempre piú volta a preparare o ad attuare un vero disegno storico, una storia sicura e metodicamente delineata.

Cosí dalle Antichità estensi, che accertavano e ricostruivano saldamente le origini e la genealogia della casa d’Este, il Muratori passò a raccogliere e organizzare (pubblicandoli in ventiquattro volumi fra il 1723 e il 1738) gli sterminati documenti dei Rerum Italicarum scriptores (cronache, storie, statuti, diplomi, poemi di carattere storico, tratti dagli archivi italiani, con la collaborazione di dotti corrispondenti nelle varie parti d’Italia), formidabile base per una ricostruzione della storia italiana dal 500 al 1500; e poi passare ad illustrare (nelle Antiquitates Italicae Medii Aevi, uscite nel 1742) molti di quei documenti nella loro illuminazione della vita civile, giuridica, commerciale, religiosa del Medio Evo, avviando cosí un giudizio diverso da quello tradizionale su di un’epoca rimasta fino allora mal conosciuta e considerata solo barbarica e tenebrosa.

Infine il Muratori tentò piú direttamente una sua ricostruzione della storia d’Italia in quegli Annali d’Italia (pubblicati fra il ’44 e il ’49) che, in forma annalistica, seguivano la storia italiana dalle invasioni barbariche sino al 1749. Certo agli Annali manca ancora quel forte e unitario senso della storia che sarà piú sicuramente presente nel Settecento solo nelle grandi opere storiografiche del Voltaire, ma in essi il Muratori offre comunque, oltre alla ricchezza e sicurezza dei dati, una notevolissima ricchezza di spunti e di acute intuizioni su vari momenti della nostra storia. E la ricostruzione di queste vicende, animata da un nuovo amore e interesse per la sua completezza nazionale, dallo spirito di verità e dall’umanitarismo cristiano e razionalistico, avverso alle guerre e alla violenza, che abbiamo già indicato tipico della personalità storica dello scrittore (donde il suo forte interesse per le epoche di civiltà laboriosa e pacifica e per gli elementi civili ritrovati anche in epoche piú oscure e violente), viene coerentemente sostenuta da uno stile misurato, sobrio, chiaro, vivace, alieno dalle forme troppo auliche come da quella pomposità barocca che il Muratori aveva combattuto anche in sede piú specificamente letteraria.

Ché infatti, nel generale ritratto di questa importantissima personalità del primo Settecento e del rinnovamento culturale razionalistico, occorrerà ancora ricordare la sua attività di pensatore di estetica, di critico letterario e di promotore della riforma arcadica e del suo «buon gusto» contro il «mal gusto» barocco: attività precisata sia nelle Osservazioni sul Canzoniere del Petrarca (piene di giudizi variamente validi, ma sempre interessanti per una nuova prospettiva critica piú libera e spregiudicata e per l’ideale di una nuova poesia moderatamente immaginosa, fondata su sentimenti veri e naturali, espressa in un linguaggio “ingegnoso” ma chiaro e comunicabile, piacevole ma non affettato e lambiccato), sia nel trattato Della perfetta poesia italiana in cui – di contro al barocco e ad un troppo rigido razionalismo, quale era quello sostenuto dai classicisti francesi del tempo – veniva affermata una concezione della poesia utile e didascalica, controllata dal buon giudizio della ragione, ma tale solo se «dilettevole» nella sua immaginosa e leggiadra capacità di “dipingere il vero” e i sinceri “affetti dei poeti”.

Sicché – come meglio potrà poi capirsi alla luce del capitolo sull’Arcadia – il Muratori fu insieme e coerentemente grande promotore e fondatore del rinnovamento erudito e storiografico e notevolissimo “riformatore del gusto” nella comune matrice razionalistica che lega la letteratura arcadica e il generale movimento culturale che segue alla fine dell’epoca barocca.

6. Pietro Giannone

Se il Muratori, come abbiamo visto, aveva avuto esigenze morali, religiose e politico-civili ben valide e rinnovatrici specie intorno al grande nuovo tema della “pubblica felicità”, ma le aveva mantenute entro limiti assai moderati e prudenti, tanto piú energicamente la nuova cultura di primo Settecento rivela la sua tendenza combattiva in difesa dell’autonomia del potere civile e dello Stato, e la forza di una storiografia congiunta saldamente ad una battaglia civile, nell’attività e nelle opere di Pietro Giannone, nato nel 1676 ad Ischitella nelle Puglie e morto in carcere a Torino nel 1748.

Personalità vigorosa e rigorosa – ben rivelata anche nella sua Autobiografia, che ricostruisce e scandisce le fasi essenziali della sua vita (prima la pacifica e laboriosa vita di avvocato e di studioso in rapporto con i migliori rappresentanti della nuova cultura a Napoli, poi la persecuzione ecclesiastica, il soggiorno a Vienna, e quindi a Venezia e a Ginevra, e poi il suo arresto e il suo lunghissimo martirio nelle prigioni dei Savoia) e ben traduce in pagine alte e severe la sua drammatica forza morale –, il Giannone iniziò la sua attività storiografica piuttosto tardi, spinto dai suoi interessi giuridici che – come avveniva nel largo cerchio di giuristi e filosofi napoletani da lui frequentati – erano attratti soprattutto dalla constatazione dell’insopportabile situazione del regno di Napoli, la cui sovranità e autonomia era limitata dalle pretese di prerogative e diritti feudali da parte della Curia pontificia.

Il Giannone si inserí in questa polemica «anticuriale», inasprita dalla volontà di autonomia dello stato napoletano dopo la fine della dominazione spagnola e dalla nuova coscienza laica e innovatrice degli intellettuali e giuristi napoletani aspiranti anzitutto a liberare il regno da una intrusione esterna che ne limitava il potere e la possibilità di riforme economiche e giuridiche.

Solo che egli piú acutamente e genialmente vide come la difesa dello stato contro le pretese di Roma presupponeva un riesame del passato e una sicura demolizione di quelle pretese nelle loro origini medievali e nella generale diagnosi polemica dello stesso potere temporale dei papi e della loro affermata supremazia sugli stati.

Nacque cosí, dopo lunghe ricerche e studi, la Istoria civile del regno di Napoli (pubblicata fra il 1721 e il 1723), opera grandiosa e geniale, dominata da un vigoroso motivo conduttore: la dimostrazione esattamente storica delle usurpazioni compiute dalla curia romana a danno del potere civile nel Regno di Napoli. Ma questo motivo si collegava pure alla negazione dell’origine divina del papato e si articolava in una ricostruzione della storia del Regno alla luce dei danni provenuti alla stessa purezza della religione cristiana, alle condizioni economiche e ai diritti di uguaglianza giuridica dei cittadini, a causa dell’invadenza papale, della ricchezza e dei privilegi del clero e degli ordini religiosi, sia nel passato sia nello stesso presente, proprio quando la nuova civiltà tendeva alla forma di monarchie assolute, ma unicamente e autonomamente responsabili di leggi sicure, benefiche e uguali per tutti i sudditi. Da qui l’aggressività aspra di una storia salda e documentata e insieme polemica e incidente su una situazione politica, giuridica, religiosa cosí scottante e attuale.

Di qui anche la reazione feroce della Curia e dei suoi alleati «curialisti», e la necessità per il Giannone di cercare rifugio a Vienna, presso la corte imperiale di Carlo VI, dove egli poté difendere la sua opera con vari trattati, mentre a Ginevra (dove era passato, dopo un soggiorno veneziano, a causa della implacabile persecuzione della Curia e dei gesuiti, riusciti a farlo cacciare da Vienna e da Venezia) terminò la stesura della seconda sua grande opera. Si tratta del Triregno, l’opera (rimasta inedita sino alla fine dell’800) in cui il Giannone svolge le sue posizioni precedenti in un deciso e veemente attacco frontale alla Chiesa cattolica, accusata di aver tradito il regno celeste, che il cristianesimo primitivo aveva contrapposto al regno terreno della religione ebraica, edificando – durante la decadenza dell’impero romano – un nuovo regno terreno, con cui i papi, al di là del loro stesso stato temporale, avevano teso ad assicurarsi un potere mondano su tutti i principi e tutti i popoli della terra, servendosi della presunta origine divina dei libri sacri, che lo storiografo demolisce con il suo spirito critico razionalistico e con prove e argomentazioni che investono tutto il campo dei dogmi religiosi fino all’affermazione della materialità dell’anima. Né a tale ricostruzione polemica e storica dell’origine nefasta del potere terreno dei papi manca l’accento dell’uomo attivo che invita i sovrani a «scuotersi il giogo che, per dappocaggine de’ loro maggiori e per l’ignoranza e superstizione de’ popoli, si videro posto su le loro cervici».

Con la Istoria civile e il Triregno il Giannone giungeva cosí ad attuare e proporre un nuovo tipo di storiografia, documentata secondo i nuovi metodi eruditi, attenta alla storia in tutto il suo significato culturale e civile, e concepita insieme come battaglia attiva e innovatrice nelle condizioni del proprio tempo. Troppa era l’aggressività dell’opera del Giannone perché i suoi avversari mancassero di porre tutta la loro forza per eliminare quell’uomo cosí pericoloso. Ciò che essi ottennero pienamente quando il 5 marzo 1736 il Giannone fu attirato, con un tranello, entro i confini dello Stato dei Savoia e fu chiuso in carcere fino alla sua morte, e pure, fino a quella, occupato tenacemente nella revisione e nella continuazione della sua opera di scrittore, combattente per le proprie idee e per una civiltà piú libera, in chiara anticipazione delle posizioni che dal razionalismo del primo Settecento si svolgeranno nell’illuminismo e nelle sue prospettive piú radicali ed eversive di ogni chiusura e limite alla libera forza del pensiero umano.